IL LAVORO DELL’INSEGNANTE: salario, giustizia e dono.

Ogni lavoro merita un salario. Ogni salario presuppone un lavoro. Insegnare richiede tempo, competenza, impegno, costa fatica. La retribuzione quindi deve essere pari alle attività svolte con qualità e sforzi analoghi. Riducendo l’nsegnamento ad un semplice lavoro se ne cancella il profondo valore. Insegnare è si un lavoro, ma dovrebbe essere prima di tutto una vocazione, che si esprime nelle sue massime espressioni quando la qualità della relazione instaurata con i destinatari dell’insegnamento risulta efficiente e positiva. Tale qualità rientra in un surplus personale apportato dall’insegnante, che dipende dall’abnegazione, dalla fede in certi valori, da una forte esemplarità: in altre parole sarebbe la parte del dono.
Considerare questa professione, questo mestiere, come una vocazione?
Quando però si tratta di negoziare il salario con il potere politico, ciò che conta non è la vocazione, ma la lotta per ottenere una adeguata retribuzione: questo è il campo della giustizia.
Esiste dunque una dicotomia: salario contrapposto alla vocazione, la giustizia contrapposta al dono!
Nell’insegnamento vi è qualcosa che va al di là della competenza tecnica e della semplice esecuzione materiale dei compiti assegnati. Questo che abbiamo chiamato surplus personale, riguarda tutte le professioni. Per l’artigiano più attenzione, per il postino o l’impiegato di banca più cortesia, la ricerca della qualità per una qualsiasi squadra di operai. L’attività dell’insegnamento presenta in effetti una significativa particolarità comune ad altre professioni: medico, artista, avvocato. Allora si parla di onorario o di salario? Prima era onorario, perché il mestiere, meglio professione del docente, era meglio onorato. Dobbiamo rivendicare questo allora? L’insufficienza del salario non è l’unica causa. Ma è il sintomo o meglio una conseguenza. Sintomo di cosa?
L’insegnante ha smesso di incarnare, nella società globalizzata, la figura esclusiva del maestro onnisciente di fronte ai ragazzi, che sono sollecitati in modo continuo, da due importanti forme di alternativa nel campo del sapere.
INTERNET
LA TELEVISIONE ( star – veline – calciatori – grande fratello )
I nostri alunni, con la crudeltà che appartiene al senso di competizione che contraddistingue l’adolescenza, possono trarre la conclusione, ahimè,  che colei o colui che, in ambito scolastico, si prende la briga di formarli, ha compiuto una pessima scelta professionale.
L’educatore, il docente, il maestro, l’insegnante, il professore, hanno oggi un compito esclusivo: sviluppare una relazione d’insegnamento  che sia anche una relazione di educazione, di formazione, di sguardo alle alternative del sapere, cercando di mediarle, con l’assistenza e complicità della famiglia.
L’inestimabilità del lavoro d’insegnamento; il surplus personale. Questo vuol dire che un simile rapporto d’eccezione si sviluppa necessariamente nel contesto apparentemente banale di un lavoro salariato ( onorato ) che esige una giusta retribuzione.

Lavoro e salario: una metamorfosi significativa

Il lavoro costituisce l’attività che ci permette do guadagnarci da vivere, ma anche che ci conferisce uno status sociale rispettabile. Ci permette di acquisire dei diritti ( reddito, previdenza, assistenza ). Senza il lavoro l’uomo moderno resta socialmente indeterminato e fragile. Perdere un lavoro risulta grave.
Una simile versione delle cose avrebbe probabilmente stupito molto gli uomini dell’antichità e non solo i filosofi. Allora il lavoro non era percepito come elemento migliorativo della vita. Per Greci, Romani, la vita buona era quella dell’uomo libero, consacrata alla cosa pubblica, polis, res publica. Tempo a disposizione, loisir, scholè in greco, otium in latino. Chi non godeva dell’otium era nel neg-otium, il non tempo libero, da cui deriva negozio, occupazione. Il commerciante era considerato l’individua maggiormente impegnato nell’attività lavorativa, meno nobile. Il contadino, detto dagli esperti di Grecia antica,  non esegue un lavoro nel senso stretto del termine. È normalmente “ vivere “ sulla terra. Seminare, arare, raccogliere. Erano  gli schiavi gli unici a lavorare e ciò che viene designato loro è descritto come una pena.  Essi assicurano ogni sorta di servizio ritenuto indegno per i cittadini. L’origine del lavoro compare nel francese travail, nello spagnolo trabajo, derivati dal latino tripalium. Laborare, lavoro in italiano, labor in inglese, che utilizza anche work, opera. Solo dal XXII secolo si rivaluta il lavoro, degli artigiani, dei commercianti. Dalla fine del XVIII secolo avviene un cambiamento paradossale. Da una parte gli economisti, Smith, Ricardo, vedono il lavoro come attività che produce ricchezza. Dall’altra, Hegel, come realizzazione e proiezione di sé nel mondo attraverso la mediazione delle cose. Lavorare equivale a trasformare il mondo, farlo a propria immagine. Per Marx il lavoratore ha la meglio sul padrone, che gode del lavoro altrui, ma si trova estraneo in un mondo fatto senza di Lui.  Egli conferma che il lavoro è produttore di ricchezza.
Veniamo al salario. Storia parallela a quella del lavoro. Nell’antichità e nel Medioevo il contadino si guadagnava da vivere. Artigiani e artisti sono ben inseriti nell’economia. Lavoratori occasionali salariati con la razione di sale durante il Basso Impero. L’idea del reddito regolare da parte del datore di lavoro con garanzie da parte dello stato era inconcepibile. Lavoro servile retribuito con vitto e alloggio. Artigiani compensati con la vendita dei loro prodotti. Artisti propongono la loro arte in cambio di onorari. Oggi per noi, il salario appare come la migliore forma di retribuzione, è un considerevole guadagno d’autonomia ( talvolta insufficiente ). Ciò è vero per qualsiasi tipo di lavoro: dirigente, operaio, bancari, commercianti, politici ( più che sufficiente ). Categoria a parte quella dei grandi ricchi ereditieri. Ci sono poi quelli che percepiscono gli onorari. Ma cosa ne è degli insegnanti?  Rispondere a questi quesiti ci permetterà di avvicinarci alla soluzione del dilemma: mestiere o vocazione, dono o giustizia.

Il pagamento sotto forma di onorario e lo statuto dell’insegnante: da Socrate a noi.

Oggi l’insegnante è stipendiato come descritto prima: figure professionali ( o quasi ). Eppure è una trasformazione avvenuta nel corso del XIX secolo. A lungo l’attività dell’insegnante è stata retribuita mediante onorari. Che non è scomparso oggi. Pensiamo al compenso delle prestazioni extra-scolastiche di un professore. Alla remunerazione dell’artista, del medico, dell’avvocato. Sono professioni cosiddette  libere. Esercitate in piena libertà, indipendentemente da qualsiasi organizzazione professionale o dal controllo dello Stato. Queste attività, come elemento essenziale, presuppongono una competenza e agiscono in modo peculiare sul destinatario. Hanno effetti sull’anima, sulla salute,  sulle relazioni con gli altri,  non producono beni di prestigio, beni utili, come cereali, vestiti, mobili. Pagando un artista non compriamo un prodotto, ma onoriamo, una poesia, una rappresentazione teatrale, una composizione musicale. Onoriamo un’arringa di un avvocato. Nell’antichità era così per maestri di grammatica, di retorica, di filosofia. Il sapere e il denaro non si misurano con lo stesso metro ( Aristotele ). Ai maestri di filosofia si offrivano dei doni. Socrate¹   si spostava in largo e in lungo. Non chiedeva nulla ed accettava cibo, ospitalità, invito a festeggiare. Fu accusato di tenere discorsi tortuosi. Condannato e giustiziato. Pur ammirando Socrate nessuno tra noi, moderni insegnanti, sarebbe pronto ad insegnare gratis. Ed è giusto. Ogni lavoro merita un salario.
Il sapere non è soltanto oggetto di ricerca interiore, ma anche oggetto di discussione pubblica e ragionata. La nascita della filosofia è segnata dal legame esistente tra scienza e discussione pubblica, verità dibattuta e democrazia. I Sofisti ribadivano che i sapienti devono poter essere pagati come i medici, gli avvocati, gli artisti che chiedono un onorario. La loro prestazione non è un bene ordinario. Va apprezzata con una somma adeguata, a volte elevata, in breve deve essere onorata. Più tardi in Occidente, con lo sviluppo delle istituzioni pubbliche, la creazione della categoria degli insegnanti, il salario rimpiazzerà l’onorario.
Socrate incarnava la resistenza del mondo antico.
I Sofisti l’ascesa al potere del nuovo. Alla fine i professori saranno inseriti nella categoria dei lavoratori come gli altri. Ma le lezioni private? Sussiste ancora l’onorario per questa attività. Ci sono mestieri per i quali l’onorario resta il modo di pagamento ordinario. Copyright per esempio. Diritto dell’autore apparso nella seconda metà del XVIII secolo, formulato da Diderot, Kant, come diritto dello scrittore sulla sua opera. Allo stesso modo l’insegnante, anche senza scrivere libri, trasmette con il suo insegnamento qualcosa di sé ed è proprio questo che costituirebbe la parte del dono
( donare qualcosa di sé ). Il salario remunererebbe quindi il suo lavoro
( cultura, competenza, erudizione, cura nella preparazione, nella correzione, il suo impegno pedagogico ). Il resto rimane come surplus personale generoso di cui si parlava all’inizio.

Giustizia, contratto, dono

Il tempo di lavoro dell’insegnante e la sicurezza del suo impegno sono garantiti dalla legge. Il contratto non giudica i meriti degli uni e degli altri, mentre l’onorario ne teneva conto. Un professore carismatico non guadagnerà più di uno timido. Si distinguono tre elementi per comprender la situazione professionale dell’insegnante:
1.    La competenza acquisita richiede lunghi anni di formazione. Investimento di tempo e denaro. Quando tale competenza + trasmessa agli allievi è del tutto logico che questa attività venga retribuita con un giusto salario.
2.    Elemento strettamente personale. Il talento proprio del docente, l’arte di comunicare, di avvincere gli allievi, di motivarli. È una dote: si ha o non si ha. Possiamo definirlo un dono, talento, skill, del quale gli altri sono beneficiari. Ma esso non garantisce anche la competenza.
3.    la buona volontà di ciascuno nel compiere il proprio lavoro con il desiderio di aiutare gli alunni per quanto possibile, di essere attenti alle loro aspettative, di sforzarsi di dialogare e ascoltare, di avere un atteggiamento di apertura verso i colleghi. Avere un comportamento animato dalla generosità. Ecco perché si parla di vocazione all’insegnamento.

Ma è così per tutti i mestieri, dove ritroviamo competenza acquisita, talento innato, relazioni positive con gli altri. Chi più, chi meno. Una migliore collaborazione tra datore e dipendente ottimizza la produttività. Nel 1953, il sociologo americano G.C Homans aveva dimostrato che la decisione di un datore di lavoro, in una fabbrica di materiali di imballaggio, di offrire un salario al di sopra dei livelli  di categoria, aveva prodotto una risposta positiva da parte degli operai. Spirito di squadra, efficienza tecnica, aumento dei tassi di produttività. Paragoniamolo allo scambio di doni tra datore di lavoro e lavoratori. Ritorniamo a Marx. Dice che il lavoratore scambia una certa quantità di tempo di lavoro con il salario. Nel suo lavoro però c’è di più. Non è un automa che libera l’energia richiesta. Egli lavora con tutto il suo essere, talvolta senza risparmiare una parte di se stesso. Questo è quello che Marx definisce lavoro vivente. Se al lavoratore viene riconosciuta maggiore considerazione ( con un salario maggiore ) egli reagisce mostrando un surplus di buona volontà. Ma questo lavoro vivente non potrà mai essere pagato perché sarà sempre incalcolabile.

Conclusione

In precedenza abbiamo affermato che la competenza,  il talento e le relazioni positive con gli altri sono comuni a tutti i mestieri. Ma c’è qualcosa di diverso nel caso dell’insegnante: di fronte noi abbiamo degli esseri umani. Desiderano vivere, conoscere, comprendere, comprendersi, essere stimati, ma talvolta si sentono incompresi, non riconosciuti, perfino disprezzati. Una cosa è lavorare su documenti, motori di un’auto, in una catena di montaggio, in banca, in posta, un’altra avere di fronte un gruppo di ragazzini. L’intensità dei rapporti interpersonali raggiunge uno dei gradi più elevati nel rapporto maestro/allievo. La posta in gioco è vitale. Insegnare è un privilegio, ma anche una pesante responsabilità. La nostra influenza determina scelte, situazioni, futuro. È un mestiere, anche se si dovrebbe parlare di professione, ( Piaget: con la ricerca e nella ricerca, il lavoro del docente, cessa di essere un mestiere e diventa una professione ) diverso. Appassionante ed estenuante. E come tutti gli altri lavori è un lavoro vivente, forse più delle altre professioni. In fabbrica, come sosteneva Marx, questo lavoro viene accaparrato dal datore di lavoro, come se fosse rubato. La macchina e il prodotto finale non risentono di questa privazione. Noi abbiamo a che fare con delle persone, anche se il nostro salario è insufficiente ed è oggetto di conflitto. Non possiamo comunque fare a meno di continuare ad avere una relazione con i destinatari del nostro lavoro. Gli allievi ci ascoltano. Ci concedono la loro fiducia e noi dobbiamo a fatica meritarla. Ci ammirano se riusciamo a coinvolgerli positivamente. È questa la differenza tra la fonte di informazione efficiente ma anonima che è Internet. Esiste uno scarto abissale, ma certe volte invisibile, fra televisione, veline, calciatori, reality, istrioni mediatici. Insegnare vuol dire sempre rispondere hic et nunc, immediatamente, alle domande che gli esseri che ci guardano, che ci ascoltano, che ci parlano. Insegnare è donare e rientra nel campo della generosità, può assumere la forma dell’aiuto per chi ne ha bisogno ed infine si trasforma in un riconoscimento reciproco, che è sempre un momento di bellezza e di gioia nella relazione d’insegnamento. Anche noi riceviamo, lo sappiamo benissimo. Ecco perché continuiamo a fare questo mestiere, anche se scoraggiati e demoralizzati. Ci aspettiamo che tale dignità venga riconosciuta dalla comunità, politici, famiglia, opinione pubblica, in primo luogo attraverso la giustizia nel salario. La riproduzione del sapere costituisce la ricchezza delle moderne economie. Rispondere alla fiducia ed all’aspettativa dei giovani affidati alla nostra responsabilità, nello spazio classe, proprio quando nessuno può sostituirsi alla nostra presenza, alla nostra parola, al nostro sguardo, al nostro ascolto.


¹Diceva: come si può accusare chi non ha mai chiesto un soldo a qualcuno. La prova è che sono rimasto povero. Non sono saggio, io cerco la saggezza.


Bibliografia:  ( Marcel Hènaff )